Intervista ad Al Gore. L’ex vicepresidente Usa spiega la nuova era robotica e il ruolo della leadership mondiale

Al Gore torna a Sundance 11 anni dopo Inconvenient Truth che vide qui l’anteprima che l’avrebbe portato poi all’Oscar e ad un premio Nobel.
Inconvenient Sequel è il seguito alla verità «sconveniente» delineata allora sul mutamento climatico, oggi quantomai attuale, e la necessità ormai critica di una riconversione all’energia sostenibile. Lui, recovering politician, il «politico in terapia di recupero» come ama definirsi, ha passato 17 anni ad elaborare la cocente sconfitta «a tavolino» contro George Bush pur dopo aver vinto il voto popolare per 500.000 schede.
Non si pronuncia, l’ex vicepresidente di Bill Clinton, sulla questione più ineluttabile: il fatto che sia da poco diventato il secondo candidato democratico alla presidenza in 16 anni a vincere il voto popolare ma perdere la casa Bianca : si tratta di semplici «anomalie» o di una più fondamentale crisi della democrazia americana?
Di tutto questo è forse pregno il silenzio – un lungo minuto di assorta, muta, riflessione che fa seguito all’inevitabile domanda. Poi si trincera dietro alla implicita ma diplomatica critica all’anacronistico sistema del collegio elettorale che «per ragioni storiche che tutti conosciamo» (la tutela delle minoranze bianche degli Stati ex schiavisti, ndr) «assegna un peso sproporzionato alle zone rurali e più conservatrici del paese».
All’analisi del sistema che ha regalato a Trump la sua «vittoria» in base a 100.000 voti della rust belt (in barba a 2,7 milioni di voti contrari) Gore preferisce una critica articolata della globalizzazione e dei paradigmi politici e macroeconomici legati al mutamento climatico.
«La portata della sofferenza umana potenzialmente legate al mutamento del clima sono paragonabili solo agli effetti di una guerra nucleare», spiega. «Ne abbiamo ormai esempi sempre più concreti. Uno di questi riguarda la Siria, affetta fra il 2006 e il 2010 da una catastrofica siccità legata la clima. La conseguente aridità ha distrutto il 60% delle fattorie siriane, uccidendo l’80% del bestiame, spingendo un milione e mezzo di profughi nelle città dove già erano arrivati altrettante persone in fuga dalla guerra irachena. Esistono documenti interni del governo siriano pubblicati da Wikileaks, in cui si avverte di un imminente esplosione per via di queste condizioni. Penso sia innegabile che abbiano contribuito a spalancare poco dopo le porte dell’inferno con l’intricata guerra civile in quel paese. E fra gli orrori che pesano sulle coscienze di coloro che si sono limitati ad assistervi, vi è il flusso di profughi che dal Medioriente e dall’Africa settentrionale si sono riversati in Europa, destabilizzando il progetto europeo e la stessa Unione europea. Ora assistiamo all’ascesa di un populismo autoritario alimentato in parte da uno storico risentimento verso l’immigrazione. E quello siriano è un esempio che potrebbe ripetersi altrove nel mondo. Sta quindi alla nostra “immaginazione morale” di capire la portata delle possibili conseguenze».
Però con Trump si registra una vittoria invece del negazionismo climatico…
Premetto che fra le cause scatenanti del populismo autoritario e dell’attuale crisi dei profughi in Europa c’è quella economica del 2008 iniziata proprio in Usa con la truffa dei mutui subprime e la grande recessione che ne derivò. Ma il problema risale a monte, agli anni ’70, quando si è fermata la crescita dei redditi.
Le cause sono molteplici, in primo luogo globalizzazione e automazione. La prima ha avuto molti benefici, riducendo drasticamente la povertà di numerose regioni del pianeta. Ma nei paesi ricchi l’effetto è stato una emorragia di impieghi ben retribuiti. Allo stesso tempo l’automazione si è rivelata ancor più problematica. Da 200 anni gli economisti vanno rassicurandoci che malgrado le apparenze l’automazione in realtà è in grado di produrre più impieghi di quanti ne elimina. Ma negli ultimi dieci anni l’automazione si è estesa fino ad interessare le attività cognitive con l’espansione di robotica e l’avvento delle prime forme di intelligenza artificiale. E tutto indica che questa rivoluzione eliminerà molti più impieghi di quelli che potranno essere creati.
Con la strumentalizzazione politica tutto contribuisce a fenomeni come gli slogan sulla costruzione dei muri di confine e l’ascesa di personaggi come Duterte nelle Filippine e gli omologhi in Europa.
Non è un quadro confortante.
No, esistono però anche segnali incoraggianti, una governance ambientale più illuminata in Cina e altri esempi positivi di cui parlo nel film.
Esistono due narrazioni: quella delle conseguenze sempre più pericolose e imminenti, e quella delle soluzioni sempre più a portata di mano e a buon mercato. E accessibili nel preciso momento storico in cui l’economia globale ristagna e stenta a trovare risposte adeguate ad automazione e iperglobalizzazione.
Quello che serve per ritrovare la crescita è un progetto globale che possa impiegare milioni di persone in ogni paese. E io dico che questo esiste: possiamo installare pannelli solari e mulini eolici, creare infrastrutture e ammodernare edifici in ogni comunità.
Quando il mondo riuscirà a decidere di affrontare questa sfida, avremo trovato anche la soluzione alla crisi economica globale.
A Parigi sembrava si fosse cominciato a farlo, poi c’è stata l’elezione di Trump. Potrebbe invertire la rotta?
Siamo certamente agli inizi di una nuova era e in questa storia ci sono molti capitoli ancora da scrivere. Ma io sono convinto che potrebbero esserci più motivi di ottimismo che di timore.
Credo che quella che io chiamo la rivoluzione sostenibile è ora così forte che nessun individuo può fermarla.
Certo, è vero che per fermare la crisi ambientale è essenziale implementare appieno gli accordi di Parigi e poi andare oltre. Perché possa essere così, è importante una leadership americana. Nella sua assenza abbiamo visto con l’intervento del presidente cinese a Davos, da dove sono appena arrivato, che altri sarebbero pronti a riempire il vuoto. Spero che perfino questa amministrazione possa capirlo e ravvedersi.
La politica però non sempre sembra disponibile.
È vero che in politica ben poco si concretizza senza che sia la gente a esigerlo. Per questo abbiamo voluto ricorrere al cinema, un mezzo in grado di comunicare e convincere milioni di persone della realtà scientifica del mutamento climatico e della concretezza delle soluzioni disponibili.
Al di là del governo Trump, quindi, io credo che continueremo a fare progressi soprattutto perché il costo dell’energia rinnovabile compete ormai con quello degli idrocarburi. Sono le stesse aziende, imprenditori ed investitori, a promuovere una rivoluzione che potrebbe abbinare la portata di quella industriale alla rapidità di quella digitale.
Non è un caso che ormai la messaggistica aziendale sia così incentrata sull’essere “verdi.” I consumatori stessi ormai reclamano la responsabilità ambientale. E i giovani, a differenza della mia generazione, danno valore a professioni che contribuiscano alla responsabilità ambientale.
Il trattato di Parigi è stato pensato anche in funzione di questo: mandare un segnale preciso all’imprenditoria che il treno sta lasciando la stazione e se non sarete a bordo, rischiate di rimanere tagliati fuori.
Uno degli elementi più significativi del film riguarda i suoi sforzi a Parigi per convincere un’India assai scettica a firmare il trattato e quanto questo abbia riguardato anche le politiche bancarie. Quali sono le responsabilità della finanza?
Moltissime. Nel momento in cui i tassi nei paesi ricchi sono i più bassi della storia, quando i paesi poveri cercano finanziamenti per la riconversione energetica sostenibile si trovano in un mercato del denaro che chiede loro tassi esorbitanti, del 12-13%, oltre alle incognite legate al cambio valutario.
I paesi ricchi del mondo hanno il dovere di agevolare l’accesso ai fondi per la conversione energetica a tassi equi. Sei mesi dopo Parigi la Banca mondiale ha concesso all’India uno storico prestito agevolato di 1 miliardo di dollari grazie al quale quel paese ha annunciato la fine dell’importazione di carbone e la riduzione dei nuovi impianti termici a carbone da molte centinaia a cinquanta.
Ora, naturalmente, le società che dipendono dalla combustione di idrocarburi per i loro enormi profitti usano la propria ricchezza per influire ancor più sui politici. Allo stesso tempo vi sono sempre uomini politici pronti a fare tutto ciò che essi chiedono. Per questo assistiamo a paradossi come leggi che arrivano a vietare l’accesso a queste tecnologie.
Lo scopo di questo film è di diffondere la verità su questa realtà fra gli elettori e fare in modo che quei politici che ricevono soldi da quegli interessi per finanziare le proprie campagne elettorali comincino a sentire dagli elettori che questo non è più accettabile nel nome dei nostri figli.
Quindi non si deve disperare nemmeno di fronte a Trump?
A mio modo di vedere la disperazione è solo un’altra forma di rimozione. Proprio come esistono stadi critici nel mutamento climatico così esistono punti si rottura nel processo politico.
Nella mia vita vi ho assistito di persona, ad esempio in tema di diritti civili, da ragazzo nel profondo Sud. Oggi è incredibile pensare che esistessero davvero quelle leggi di discriminazione razziale. Ma poi tutto è cambiato.
Un grande economista, Rudy Dornbusch, usava dire che “i mutamenti ci mettono sempre più a succedere di quello che ti aspetteresti ma poi avvengono molto più in fretta di quello che avresti creduto.” E così è stato con la massa critica che ha infine modificato rapidissimamente le leggi sul matrimonio gay negli Stati uniti. Fino a cinque anni fa se mi aveste detto che sarebbe successo così rapidamente vi avrei creduto pazzi.
Il movimento per il clima è simile a quello per i diritti civili per i neri e per gli omosessuali e come quello per il suffragio universale, contro l’apartheid o come l’abolizionismo in America 150 anni fa.
Tutti questi movimenti in definitiva hanno dato risposta a una semplice domanda: cos’è giusto e cosa non lo è? E alla fine, quando si ripulisce il sottobosco e riusciamo a guardare non solo coi nostri occhi ma coi nostri cuori, allora la decisione diventa semplice e morale.
Sul clima ci siamo quasi. Ci siamo quasi.
Dopo la rottura al G7, Donald Trump ha annunciato di voler abbandonare l’Accordo di Parigi, con l’intenzione di rinegoziarlo e giudicando gli obiettivi irraggiungibili. Lo ha fatto contro buona parte dell’industria Usa – inclusa quella petrolifera.
E lo ha fatto contro gli stati più importanti e economicamente rilevanti a partire dalla California, che ha appena annunciato un piano per raggiungere il 100 per cento di rinnovabili entro il 2045.
Dunque la rottura al G7 è diventata nel giro di una settimana una specie di «cataclisma» con dichiarazioni contrarie a Trump dentro e fuori gli Stati Uniti.
Il sospetto è che possa aver ragione il premio Nobel Paul Krugman che, sulle pagine del New York Times, commenta che la decisione di Trump non è basata sul nazionalismo ma è una «pura ripicca» nei confronti del predecessore. Ricorda, tra l’altro, che nel 2016 l’industria del carbone ha dato i suoi finanziamenti elettorali per il 97% ai repubblicani. Ma anche che la linea della «ripicca» è generalizzata: cancellare ogni cosa fatta da Obama.
Al di là della dinamica interna agli Stati Uniti, la cosa più rilevante è che la reazione di difesa dell’Accordo di Parigi si è estesa a molti altri Paesi. La conferenza stampa tra Unione Europea e Cina per ribadire gli impegni assunti a Parigi è probabilmente un fatto storico e «surroga» forse quell’accordo di cooperazione promosso dalla Presidenza Obama, che ha inciso non poco sugli esiti della Cop 21.
Cosa serve per realizzare l’Accordo di Parigi? Volendo metterla in «soldoni» vanno circa triplicati gli investimenti annuali in tecnologie pulite. Nel 2015 gli investimenti globali nelle fonti rinnovabili sono stati di circa 286 miliardi di dollari con in testa nettamente la Cina che, da sola, ha investito più di Europa e Usa messe assieme: quasi 103 miliardi contro i circa 49 dell’Europa e 44 degli Usa. E negli Usa già oggi il settore del solare occupa più del carbone che invece continua a perdere terreno.
Un altro fatto positivo a livello globale, che è già in corso da alcuni anni, è che la riduzione di costo delle tecnologie consente di installare più Gigawatt a parità di costo. Allo stesso tempo i costi e le capacità delle batterie vanno migliorando rapidamente così come si sono drasticamente ridotti i costi di tecnologie efficienti come i Led.
Il gioco di squadra fatto da Germania, Francia e Italia al G7 e successivamente è un dato molto positivo: finalmente abbiamo visto una reazione corale e un primo segno di cosa può significare rilanciare la leadership europea, oggi più necessaria che mai.
È dunque tempo di passare a tradurre questa direzione politica in atti concreti, ad esempio alzando gli obiettivi europei fissati al 2030.
Per l’Italia si tratta di rilanciare con decisione il settore delle rinnovabili in stasi da almeno 3 anni. E di fare una riflessione sulla mobilità sostenibile e il ruolo dei veicoli elettrici in un quadro che vede la Fca in posizione di retroguardia, mentre altri importanti gruppi stanno investendo massicciamente.
Ci si propone come «via italiana» per ridurre le emissioni dei trasporti quella del gas, che avrà uno spazio nella transizione, ma che non rappresenta certo il futuro: già oggi i veicoli elettrici implicano emissioni di Co2 molto minori di quelle del gas. Futuro che è più vicino di quanto si possa immaginare: se la collaborazione tra le industrie europee – produttori di auto tedeschi e francesi – e la Cina avrà sviluppi, come è logico aspettarsi, e se in Italia non ci muoviamo celermente, il declino di parte della nostra industria è segnato.
Dunque tocca alla politica di battere un colpo: un segnale importante è stato dato al G7, occorre creare le condizioni perché queste politiche vengano assunte come riferimento dalle principali istituzioni e attori politici, perché l’Italia possa giocare la sua parte e rilanciare la sua economia.
La prima occasione è la discussione sulla Strategia Energetica Nazionale: si alzino gli obiettivi rinnovabili, troppo bassi nella proposta, e si dia un traguardo di totale decarbonizzazione al 2050. Si può fare, ne avrebbe beneficio il clima e l’aria che respiriamo, e le prospettive della nostra economia.